A Istanbul tra le storie non dette

Cronache da una città che non è solo a cavallo di due continenti, ma anche di infiniti, caleidoscopici mondi


Testo di Clara Valenzani da Azione

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Sono arrivata a Istanbul con l’intento di trovare una storia. Una di quelle curiose, che faccia esclamare al lettore «Ma va, davvero? Questa mi è nuova». E le storie buone si scovano osservando, parlando, vagando.

L’ho cercata ancora prima di atterrare, osservando dal finestrino il Mar di Marmara increspato come carta velina e solcato da decine di navi, battelli, portacontainer, sostituti dei galeoni genovesi e veneziani che un tempo affollavano lo Stretto del Bosforo.

L’ho cercata nel tragitto congestionato dall’aeroporto al centro, scrutando da un finestrino che restituiva una visuale appannata in cui si mescolavano cieli lattiginosi e negozi di baklava, basse nuvole grigie e pilastri di un ponte, striature di pioggia sul vetro e marciapiedi bagnati affollati da scarpe eleganti, vecchie, col tacco, da ginnastica.

L’ho cercata muovendomi tra la folla, camminando sui binari del tram insieme ai turisti e ai 15 milioni di abitanti, pigiata e stupita dalla quantità di gente che una stretta via può contenere e attenta a captare il fischio del treno in arrivo.

L’ho cercata in una Santa Sofia quasi deserta, in coda alla biglietteria così presto che dallo sportello mi hanno offerto un caffè, annacquato simbolo della proverbiale (e veritiera) ospitalità dei turchi. Mentre percorrevo le gallerie di mattoni per entrare nell’edificio che ha ospitato quasi 1500 anni di storia, i miei passi rimbombavano nei corridoi e una sciarpa verde mi copriva i capelli alla maniera islamica.

Ho osservato la cupola dorata da 30 metri di diametro: da 56 di altezza racchiude e abbraccia l’opera di Giustiniano nata come chiesa, divenuta moschea, poi museo, e infine nuovamente luogo di culto musulmano. Enormi medaglioni parlavano di Allah e Maometto, l’oro dei mosaici baluginava, i grandi lampadari dalle luci a forma di foglia illuminavano strani angeli serafini. Sotto un raggio di luce, nella navata destra, un gatto striato di grigio socchiudeva gli occhi raccogliendo la devozione dei visitatori, proiettando la sua ombra sul pavimento di marmo calpestato da vichinghi e crociati, come un dio egizio.

L’ho cercata camminando tra le 336 colonne della Cisterna Basilica, una foresta sotterranea e umida, il pavimento che un tempo poteva ricevere 100 mila tonnellate di acqua da 20 km di acquedotti per rifornire il palazzo e gli edifici adiacenti. «Le acque verdastre si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e là da un barlume di luce vivida che accresce l’orrore delle tenebre», scriveva Edmondo de Amicis. Ora ne rimane solo un basso strato stagnante, ricopre le piastrelle antiche ed è così immobile che sembra vetro; i pesci sono sostituiti dalle monetine lanciate dai turisti in questa Fontana di Trevi orientale. Tra i soffitti gocciolanti e le luci soffuse arancioni e verdi ho scorto una testa di Medusa scolpita nella pietra, riversa, come se lo sguardo riflesso nell’acqua fosse tornato al mittente.

L’ho cercata attraversando il ponte di Galata, che neanche di notte riesce a riposare in silenzio. Sotto una luna a falce, la Yeni Camii e la Süleymaniye Camii, la Moschea Nuova a sinistra e quella di Solimano sul colle a destra, brillavano come l’immaginario palazzo di Agrabah, i minareti stagliati contro le nubi dai contorni sfilacciati che portano pioggia e non vogliono andarsene, resistenti quanto l’odore di acciughe e caldarroste.

Le bandiere sventolavano, i battelli dormivano e i pescatori tentavano ostinatamente di tirare su un pesce dal canale inquinato, incitati dai gabbiani. Eccone uno che si dibatte, il ragazzo lo getta nel secchio e conta il bottino. Seduta su un minuscolo sgabello sorseggio l’ennesimo cay comprato dal furgoncino del tè, il bicchierino a pera scotta i polpastrelli mentre ripeto con lui: ventisette pesci. La coppia anziana più in là invece è ancora in attesa, lei aspetta paziente che abbocchi qualcosa sotto l’hijab a fantasia scura.

L’ho cercata, la mia storia, anche passandoci sotto a quel ponte, su un traghetto che fa la spola tra due mondi, andando dall’Europa all’Asia, tra l’imbarco di Eminönü e quello di Kadıköy. Qui c’è un’altra Istanbul fatta di negozi che vendono vestiti in pelle, tatuatori, graffiti, bar alternativi che si mescolano ai banchi del mercato su cui gli anziani annaffiano le verdure esposte e invitano a comprare le oltre 20 qualità di olive. La sera si torna nella prima Istanbul, sotto un tramonto incerto che non ha ancora deciso se essere rosso o rosa.

L’ho cercata esplorando la zona del Corno d’Oro, a ovest, passando lungo le strade del quartiere di Fatih, fendendo l’odore di sapone che usciva da un bagno turco rimesso a nuovo e quello del kebab. Lungo la trafficata arteria percorsa da bus gialli sorgono negozi di abiti da cerimonia poco sobri, ma prendendo una via laterale in salita ecco un panettiere che inforna con la pala, mamme coi bimbi al parco giochi di fronte alla moschea, un sussurro da dietro le tendine al piano terra per chiamare un gatto arancio in fuga, e bandierine turche appese dietro i vetri, a indicare che il nazionalismo di Atatürk persiste.

Mentre si sale e si scende lungo strade che ricordano Sarajevo si vedono melograni rossi selvatici nascosti tra le fronde, vicino a una chiesa rosa cipria: ma non si può entrare, è l’ora della preghiera.

Non importa, sto ancora cercando la mia storia. Forse potrebbe raccontarmene una interessante quella donna pensante su un terrazzo, il mento appoggiato sulla mano e un foulard in testa. Oppure quella con un sorriso sdentato e un enorme mazzo di fiori bianchi, che mi saluta accogliente mentre mangio un lahmacun, la pizza ripiegata e condita con carne macinata all’inizio di Fener, il distretto ebraico. Ma non ho modo di parlare con loro e devo continuare a inseguirla, a stanarla, quella storia ancora in fuga.

Procedo, i percorsi si ricongiungono come un anello che si chiude casualmente e mi ritrovo nell’area dei bazaar, di nuovo in centro. L’ho cercata anche lì. Mi sono aggirata tra i soffitti a volta decorati di blu e rosso, tra cuscini cuciti in serie e ori di dubbia autenticità. Tappeti di poliestere, lampade, profumi, ceramiche, gioielli, tutto simile. Nel traffico del mercato, appoggiato a una colonna e seduto su una delle immancabili, piccole sedie, un venditore attendeva i clienti leggendo un libro.

Ancora niente.

L’ho cercata aggirandomi nel quartiere dei calzolai, tra le tipiche case ottomane con i balconi aggettanti, i tralci di vite che pendevano intrecciati ai fili elettrici, gli hammam riconoscibili dalle cupole. Forse la mia storia si nascondeva lì, tra il fumo e il vapore di un bagno turco defilato? Sono entrata.

La massaggiatrice non parlava una parola di inglese, era massiccia, con il seno grande e pesante. A gesti mi ha indicato cosa fare, e si è richiusa la porta antica di legno scuro alle spalle. Sola nelle vecchie sale ho ascoltato il rumore di un rubinetto che perdeva, ho scrutato le venature scure del marmo non ammorbidito dagli anni; acqua, sudore e aria si mescolavano sotto i vetri colorati del soffitto. Mi sono rivestita e sono uscita in silenzio, lei era appisolata sul divano, una ciocca di capelli rossi tinta malamente sfuggiva dalla bandana, la tv trasmetteva un vecchio film. Salite le scale in punta di piedi mi sono lasciata alle spalle quella bolla ovattata e atemporale fatta di acqua, calore e asciugamani di cotone a quadri.

Dall’alto del quartiere ho guardato il mare brillare più giù, in fondo, e ho pensato alla mia storia.

L’ho cercata, e alla fine non l’ho trovata. Perché Istanbul è così affollata, chiacchierata, conosciuta, che chissà quante storie sono già state scoperte. Quella manciata di giorni non basta di certo. Una metropoli talmente viva e brulicante che non è possibile immaginare di esserne suoi romantici esploratori.

A Istanbul non siete avventurieri. Siete osservatori, narratori, cantastorie che si sono immersi nei colori delle case del quartiere greco di Balat, hanno annusato il profumo del caffè che sobbolle sui tizzoni ustionanti, hanno osservato i cieli sgombri quando il grigio lascia finalmente il posto all’azzurro e sono infine tornati sul ponte di Galata, domandandosi se ci sarà ancora quel furgoncino da cui comprare il tè che scotta i polpastrelli.

  • Le colonne all'interno della Basilica Cisterna illuminate da fari colorati e installazioni artistiche
  • Un tramonto polveroso su Istanbul, fotografato dalla riva asiatica poco prima di prendere il traghetto
  • Un raro scatto senza turisti nel quartiere ebraico di Balat, famoso per le case colorate arroccate ai lati delle vie ripide
  • Interno di un bagno turco non turistico: marmi, vetri e silenzio creano una dimensione rilassante lontana dal caos cittadino
  • Gabbiani sorvolano Santa Sofia nel classico scenario da cartolina turca
  • Tessuti, souvenir e corridoi labirintici nel Gran Bazaar
  • Preparazione del caffè turco: chicchi macinati, zucchero e acqua vengono messi a sobbollire sul carbone in pentolini di rame
  • Due dei simboli di Istanbul insieme: un gatto si gode i primi raggi di sole sui pavimenti marmorei di Santa Sofia
  • Medusa proietta la sua ombra su una nicchia all'estremità della Basilica Cisterna