Entre ciel et terre
di Anna D'Elia (pubblicato su Ponza Racconta)
Il mondo si ferma qui, dove il mio viaggio finisce. Non è permesso andare oltre, il piede affonda nella sabbia, davanti all’ultima onda. Qui c è una linea sottile che segna il cielo e il mare e in essa il mio sguardo si immerge, si sconfina, si perde.
Non so come stremata resisto in questa infinita inquietudine, groviglio arruffato di pensieri e budella, di rabbia e impotenza, di paura e bellezza, senza fiato.
Ho notato che quella linea fragile a volte si tinge di blu ardesia e scurisce più dell’acqua, che sfumando dal verde all’azzurro spumeggia danzando dinanzi ai miei occhi e in mille rivoli si disperde.
Altre volte, invece, l’orizzonte sparisce, lì dove mare e cielo si fondono e io resto muta a chiedermi dove si sia nascosto, cosa abbia inghiottito, perché attiri cosi tanto lo sguardo di me viandante che lo scruta.
Tra le mappe disegnate dalle onde sopravvissute all’oblio c’è la luce di un’alba. In esse ritrovo pericopi di tempo sospeso, preservati in fogli sparsi nel mosaico dei giorni.
Tornano, cosi evocati, profili di dune e nuvole, volti, occhi e mani che respirano con me il silenzio nel suono infaticabile del vento.
Al di qua dell’orizzonte restano, immobili come rocce, le mie domande sull’invisibile, insieme al filo azzurro che tento di lanciare al di là, dove però nessuno sa raccoglierlo. Allora traccio segni sulla sabbia, che la marea inesorabile cancella.
Altre volte l’orizzonte si fa scuro, ma sopra, nel cielo, rilucono occhieggianti timide stelle, testimoni dei miei sogni.
Talora quel confine è addirittura nerissimo come un abisso, quando romba il tuono e nuvoloni grevi si appropriano di ogni spazio sopra di me.
Non ci sono profumi, allora; non voci, non erba alta nel vento, nulla. Soltanto onde che mi avvolgono in una nebbia fitta, senza speranza. È lì che mi perdo, come un Ulisse vagante, è lì che affonda la mia anima sgomenta.
L’urlo è qui, fermo nel petto, incistato nel vuoto incolore della solitudine, in cui mi ritrovo davanti a me incredula, ai miei naufragi, al dolore, alle perdite, ai lutti. Questa è la tempesta del mio cuore insulare.
E poi… Il vento cambia rotta ed ecco giungere un lampo imprevisto e con esso un affiorare scorato di senso. Provo a emettere un violaceo balbettio senza suono.
Tra questi pensieri in frantumi sulla riva dell’oceano al confine del mondo, emergono scarne memorie: gli occhi di mia madre e con essi la certezza di essere stata infinitamente amata.
Come gli alberi di Bretagna, piegati dal vento fino al suolo, ma mai vinti, io mi ancoro a questa estrema via di salvezza.
Il varco è qui.
L’orizzonte, allora, si fa argento liquido, una colata di luce perlacea lascia intravedere un sottilissimo lembo di terra dall’altra parte, un altrove che la marea consuma. Sarà vera quella terra o è l’ennesimo inganno?
Credo che solo così, forse, nel dubbio, si possa lasciare l’isola alle proprie spalle, abbandonare la scogliera e finalmente salpare verso un oceano senza tempo.
Oltre-passare, con lucida malinconia dirigendosi verso il fragile destino di polvere che è dato in dono.
Con gratitudine verso quegli occhi che mi hanno data alla luce, per aver potuto sostare sulla soglia infinita del mistero.